Turchia dell’Est
La presenza dei frati cappuccini nella Turchia dell’est nacque quasi per caso, come propaggine del tentativo missionario rivolto con più ambizione verso la Persia.
Fu infatti Abbas il Grande, Scià di Persia, che, mandando un’ambasceria a Roma nel 1604 a papa Clemente VIII, offrì l’occasione per iniziare questa presenza dei cappuccini in Oriente.
«Clemente VIII, ad istanza di Abbas I, nel 1604 mandò in Persia per missionari i carmelitani scalzi, che vi fecero progressi e fabbricarono un convento con dieci religiosi e vi aprirono una chiesa: in seguito vi si portarono gli agostiniani di Goa, i cappuccini di Francia, i domenicani ed i gesuiti» (Moroni, Dizionario di erudizione, Vol. LII, p.125).
I cappuccini si insediarono qualche anno dopo i carmelitani: dalla Francia partì nel 1626 un primo gruppo sotto la guida di p. Pacifico da Provins che, dopo una sosta forzata di due anni ad Aleppo (ove aprì anche una missione), solo nel 1628 poté partire per la Persia.
«Noi partimmo da Aleppo verso il 20 giugno 1628 – scrive lo stesso p. Pacifico – ed attraversando i deserti di Arabia, arrivammo in Babilonia (Bagdad) dopo cinquantadue giorni
Io non mi allungherò in descrivere quel che accadde in viaggio… e potrei dire senza mentire che nostro Signore fece tanti miracoli… come nell’arresto che il re degli Arabi Metelich fece della nostra carovana. Mentre aveva fatto abbattere tutte le tende nel più grande ardore del sole e aprire tutte le valigie e balle dei mercanti, quando fu alla nostra, gli Arabi s’interposero e gli dissero bene di noi, in guisa che egli non fece abbattere la nostra tenda né aprire il nostro bagaglio, anzi nel visitarci, dopo averci bene squadrato, ci disse: Orsù io non vi domando nulla, pregate Dio per il principe» (p. Clemente da Terzorio, Le Missioni dei Minori Cappuccini, Vol. VI, Roma 1920, pagg. 9-10).
Il 10 agosto questi frati indomiti giunsero a Bagdad e là aprirono subito una missione, prendendo una casa in affitto, col permesso del governatore, e trasformando la stanza più grande in cappella. Fu inaugurata nel giorno dell’Assunta, dopo soli cinque giorni.
Dopo poco tempo il p. Pacifico, lasciato un frate a Bagdad, con un altro confratello, p. Gabriele, proseguì per la Persia, giungendo a Ispahan, allora capitale della Persia, circa un mese dopo.
«Finalmente, come Dio volle, giunsero a Ispahan (forse da Aspakan, paese dei cavalli), città che giace in una vasta pianura presso la riva sinistra del Zendeh-rud. Essa era una volta la più grande, la più popolata, la più colta e la più fiorente città di tutto l’Oriente. Si dice che i suoi abitanti giungessero fino a 700.000» (Ibidem, pagg. 12-13).
«I padri Pacifico e Gabriele, messo piede nella città di Ispahan e saputo che colà c’eran i Carmelitani e gli Agostiniani, si presentarono a loro e questi li accolsero con fraterna carità» (Ibidem, pag. 15).
Furono presto ricevuti dallo stesso Abbas il Grande che con favore vedeva attraverso i due frati francesi, la possibilità di un’alleanza con il re di Francia. Nell’incontro ebbero come dono dallo stesso sovrano un palazzo ad Ispahan e un’altro a Bagdad, ove fondarono così le loro missioni. Lasciato il p. Gabriele a Ispahan e il p. Guido a Bagdad, il p. Pacifico, via Aleppo, dovette però rientrare in Francia per portare un messaggio dello stesso Abbas al re di Francia, Luigi XIII. Il p. Pacifico, compiuta la sua ambasciata, non potè più tornare in Persia, perché fu destinato dai Superiori ad altro incarico, ma su sua segnalazione i Superiori inviarono prontamente in Persia altri sette religiosi.
I novelli missionari erano appena giunti a destinazione che lo Sciah Abbas, loro protettore, morì (1629) lasciando il regno in mano a un dispotico nipote.
Le vicende che seguirono costituiscono un romanzo a parte, ma l’inizio della missione dei cappuccini in Mesopotamia inglobata allora nell’impero ottomano, parte proprio di là.
Infatti qualche decennio dopo, il frate francese p. Giambattista da S. Aignan, dopo aver fondato una missione a Mossul e averla sostenuta con la sua opera instancabile, s’era recato nella vecchia missione di Bagdad. Dopo l’arrivo di altri frati, aveva però deciso di ritornare ad Aleppo. Siamo nel 1667.
Fu proprio in quel viaggio provvidenziale verso Aleppo che il p. Giambattista, essendosi unito a una carovana che passava per Diyarbakir, nella sosta forzata che egli aveva dovuto compiere in questa città, fondò la missione cappuccina di Diyarbakir (Cfr. scheda pag. 35).
Egli restò in quella città circa tre anni, convertendo alla fede cattolica tanti cristiani ortodossi, non solo, ma convertendo anche il vescovo nestoriano Mar Giuseppe (1670) col quale «diede principio alla serie dei Patriarchi Caldei cattolici non più interrotta di poi» (Ibidem, pag. 144). Il p. Giuseppe da S. Aignan, divenuto nel frattempo Custode (cioè, Superiore ) di tutta la Missione d’Oriente, dovette rientrare ad Aleppo ove era la sua sede.La missione a Diyarbakir continuò negli anni seguenti con alterne vicende, tra persecuzioni in genere scatenate dalle gelosie delle altre chiese ortodosse concorrenti che si vedevano portar via i fedeli convertiti al cattolicesimo, o da ragioni politiche, a seconda degli interesse dei vari governatori turchi che si avvicendavano.
La conversione di un altro vescovo nestoriano di Diyarbakir, prima uno dei più accaniti nemici dei cattolici, fu l’occasione di fondare un’altra missione nella vicina città di Mardin.
Questa volta era stato p. Giuseppe da Reuilly che succedeva come superiore al p. Giambattista, a convertire Mons. Egamaon, il detto vescovo nestoriano. P. Giuseppe, dopo aver lungamente sperimentato la tenuta cattolica del nuovo vescovo, suggerì al Patriarca Mar Giuseppe di promuoverlo alla chiesa vacante di Mardin. Così fu fatto. Ma Mons. Egamaon, giunto a Mardin per reggervi la comunità cattolica dei caldei di quella città, volle a tutti i costi che vi andassero anche i padri cappuccini e tanto fece e supplicò che una residenza dei frati fu così aperta a Mardin. Siamo nel 1683.
Questa presenza a Mardin fu molto contrastata seguendo da vicino le sorti di quella di Diyarbakir. Agli inizi del 1700 la missione di Mardin fu chiusa per l’impossibilità di sostenere l’ondata di persecuzione e, verso gli inizi del 1800, anche quella di Diyarbakir fu abbandonata. In compenso nel 1747 a Mardin si insediò una comunità di Carmelitani che resse sino al 1822.
La pausa durò pochi anni: per volere della Congregazione di Propaganda Fide nel 1841 altri missionari partirono, questa volta dall’Italia, ma erano frati spagnoli rifugiati in Italia per i moti rivoluzionari che erano scoppiati in Spagna in quegli anni.
Inviati dai superiori ad Aleppo, in attesa di mezzi e risorse adeguate per proseguire verso Diyarbakir, essi si fermarono colà qualche mese, poi stanchi di attendere decisero di proseguire il loro viaggio giungendo a Urfa il 28 agosto di quell’anno. Urfa, l’antica Edessa, li accolse benevolmente e non avendo ancora mezzi e risorse adeguate per proseguire verso Diyarbakir, si fermarono a Urfa (oggi Sanliurfa) e presero una casa in affitto.
In essa [Urfa] entrati (28 agosto 1841) i padri Giuseppe da Burgos, Angelo da Villarubia e frate Pietro da Premià, trovaron facilità ai primi passi: il Pascià non avverso, la gente calma, un potente giacobita li ospitò da principio; indi avuta una casa vi adattaron nella miglior camera una cappella, e qui sotto gli auspici della Divina Pastora, venne iniziata la missione» (Ibidem, pag. 232).
Iniziata così la missione di Urfa, p. Carlo da Loreto, il superiore di Aleppo che li aveva accompagnati, «si recò a Diyarbakir per ispezionare l’antico e abbandonato nostro ospizio; ma trovatolo ingombro d’abitanti, dopo brevissima dimora colà, riprese la via d’Aleppo per far ritorno a quella sua residenza. Nel ripassar da Urfa rivide i confratelli e lasciò loro alcuni denari, per esser quei buoni padri già in penuria estrema» (Ibidem, pag. 233).
Di là, dopo aver pazientemente superato alcune dure prove di persecuzione, giunto finalmente il sospirato sussidio e l’aiuto di un altro paio di confratelli, partirono alla volta di Mardin per fondare, o meglio rifondare colà la nuova missione. Furono accolti con grande simpatia e devozione dai cattolici di rito siro-caldeo e armeno, ma iniziò presto anche qui la persecuzione degli eretici giacobiti e di fanatici musulmani. Mentre i due padri Nicola da Barcellona e Raimondo da Olot, giunti in aiuto da poco tempo, erano presi dallo studio delle lingue e dall’apostolato, il fratello laico frate Pietro da Premià, con le sue conoscenze di medicina, si prendeva cura degli ammalati, con ottimi risultati, tanto che in poco tempo il piccolo ospizio fu ingombro di infermi: cristiani e turchi.
Frate Pietro curava tutti senza distinzione, servendosi anche di erbe curative che aveva trovato su quei monti. “L’opera della medicina era benedetta da Dio”, tanto che le numerose guarigioni guadagnavano ai frati le simpatie dei maggiorenti della città e dello stesso Governatore. Cambiò così a favore dei frati il clima politico della città.
Mossi da zelo pastorale per la gioventù, quei due giovani frati aprirono anche una scuola tanto richiesta dai capifamiglia cristiani per l’istruzione dei loro figli. Una cameretta al piano terra di soli mt 4,5 per mt 2,60, fu adattata a scuola, e vi si insegnava italiano, latino, nozioni di matematica e canto ecclesiastico per il decoro della liturgia che veniva svolta in una vicina chiesa caldea. La scuola era aperta a tutti.
Ma la miseria della gente e la povertà dei frati era estrema. Scrive il p. Nicola: «Tutti i nostri arnesi si riducono a un vecchio calice d’argento, ormai inservibile, a un camice di sottilissima cotonina, a una pianeta di color violetto per la messa di martire, per quella di confessore facciamo uso d’altra pianeta quasi bianca, che ci imprestò provvisoriamente il Padre Vice Prefetto d’Aleppo, le suppellettili, come sarebbe tavola, letto, ecc., si concretano al nulla, né c’è speranza d’altri emolumenti, fuorché qualche elemosina che ci mandano dall’Europa. Questo popolo pur troppo vessato, offre il più vero ritratto della miseria. I masnadieri, che infestano la campagna, impediscono l’agricoltura; le gravissime imposte dei magistrati hanno distrutto il commercio, e la generale carestia dell’anno scorso ridusse il popolo a pascersi col seme di cotone, cagionando la mancanza di viveri, infermità gravissime, senza contare più di 5.000, tra turchi e cristiani, che perirono nelle pubbliche vie. Posso dire, che lamento è quasi generale, né può far a meno di commuovere il cuore a sovvenire la moltitudine tuttavia languente» (Lettera del 25 gennaio 1842, in p. Clemente da Terzorio, pagg. 255-256). n pratica, quei poveri frati erano al verde e i confratelli di Urfa non erano certo in migliori condizioni. Finalmente dopo lungo aspettare i frati ebbero sia i firmani (decreti del sultano che davano l’autorizzazione a insediarsi in quel luogo) che gli aiuti economici promessi dalla Congregazione. Fu così acquistata una casa situata nel quartiere cristiano della città, che fu in seguito ingrandita e trasformata in convento.
Nel frattempo la stessa Congregazione aveva separato la missione di Mesopotamia, con le due case di Urfa e Mardin, da quella di Siria e il 30 agosto del 1842 aveva conferito alla missione dei cappuccini il titolo di Prefettura Apostolica di Mardin. Prefetto era stata nominato il p. Giuseppe da Burgos.
La missione di Mardin crebbe notevolmente, con una scuola per ragazzi e una scuola per le fanciulle, cosa allora insolita in Oriente. Il 13 maggio del 1843, il detto p. Giuseppe poneva la prima pietra per la costruzione di una chiesa a Urfa, indebitandosi notevolmente pur di portarla a termine in breve tempo, temendo il cambiare del vento politico della città, in quel momento favorevole ai frati. Appianate alcune avversità, il 15 agosto, festa di Maria Assunta il prefetto con grande solennità inaugurò la nuova chiesa e vi cantò la prima S. Messa, con gioia di tutta la comunità cattolica.
Il frate medico di Diyarbakir
Fondatore della nostra missione a Diyarbakir fu un cappuccino francese, un certo padre Gianbattista che, dopo aver fondato a Musul (nel nord dell’Iraq) una prima missione con altri quattro confratelli, aveva deciso di rientrare ad Aleppo.
Unitosi a una carovana che andava in quella città, eravamo nel 1667, si trovò a passare per Diyarbakir. Doveva essre solo una sosta di qualche giorno per i soliti commerci, ma in quella città proprio in quei giorni si trovava ammalato il fratello del pascià ( governatore) della regione. Una malattia grave, ritenuta incurabile dai mediconi turchi.
Saputo, chissà come, che nella carovana che andava ad Aleppo c’era un “franco”, cioè un occidentale francese che sapeva di medicina, il pascià lo fece prelevare dal gruppo affidandogli la cura del fratello. Con l’aiuto di Dio e di qualche buona cura, l’uomo guarì completamente nel giro di un mese.
Tutta la città ne fu ammirata e il nome del padre Gianbattista fu così sulla bocca di ogni abitante.
A tale fatto seguì un correre di ammalati di ogni sorta e il povero frate, coadiuvato da un confratello suo compagno di viaggio, si trovò a passare giorni e giorni nel visitare gli abitanti della città, pascià compreso. Tutti erano curati gratuitamente, per amore di Dio.
I vescovi cristiani di Diyarbakir (vi erano varie comunità: nestoriana, armena, greca, caldea) con orgoglio presentavano i frati ai loro fedeli come veri esempi di vita evangelica e così tutte le porte erano loro aperte con molte conversioni al cattolicesimo.
Intanto il fratello del pascià, che era stato da lui salvato da morte, continuava a insistere perché accettassero un’adeguata ricompensa e, sapute le ragioni del loro rifiuto: “Vogliamo essere poveri come Gesù e il nostro padre san Francesco”, ne fu ancor più profondamente ammirato.
“Almeno, se non volete nulla per voi stessi, domandate qualcosa per i vostri amici e per quanti vi stanno a cuore e io li beneficherò per amor vostro”.
Padre Gianbattista, viste le insistenze di quell’uomo, gli chiese che provvedesse a restaurare a proprie spese le condutture dell’acqua potabile ormai rovinate e rese quasi inservibili, per cui la gente attingeva l’acqua malsana al fiume o dove capitava. E ciò era causa di tante infezioni e malattie.
Quel gran signore accettò la proposta e fece risistemare tutte le condutture dell’acqua potabile, spendendo una cifra enorme per quei tempi, superando i mille scudi. Tutta la città ebbe così acqua bona.
Si può immaginare l’esultanza degli abitanti, vedendo che su di loro si riversava il beneficio che i frati s’erano guadagnati con la loro arte medica.
Quel signore poi assegnò al convento – una semplice casa presa in affitto e adattata in qualche modo – un’offerta giornaliera di pane, carne e riso per il sostentamento dei frati. E questo continuò finché egli con il fratello pascià rimasero colà.
La missione impiantata in questo modo, crebbe ancora e continuò a prosperare per anni…
(p.Clemente da Terzorio).
L’attività dei cappuccini si espande
Il 17 settembre, sempre del 1843, essendo giunti da Roma altri quattro frati catalani, lo stesso prefetto.
Giuseppe, presi due di questi frati, senza tante formalità li portò a Diyarbakir e con loro si insediò nel vecchio ospizio dei frati, depredato e chiuso da anni.
Il governatore della città riconobbe il diritto dei cappuccini sulla loro vecchia proprietà e perciò, malgrado le opposizioni dei soliti avversari, volle che fossero lasciati in pace.
Si aggiustarono alla meglio nell’edificio ridotto in pessime condizioni, adattando una cappella in una delle camere al pianoterra. L’avventura di Diyarbakir ripartiva…
Per qualche tempo in quella città ci fu calma e le conversioni si succedevano una dopo l’altra con grande gioia dei padri spagnoli.
Il prefetto, il p. Giuseppe da Burgos, purtroppo moriva di tifo poco dopo a Tokat, mentre era in viaggio verso Costantinopoli per perorare la causa dei suoi convertiti, e fu sepolto nella cattedrale armeno-cattolica di quella città: tante grazie gli furono in seguito attribuite, essendo morto in concetto di santità.
Gli successe nella carica di Prefetto p. Nicola da Barcellona, altro religioso insigne, che era superiore a Mardin (23 novembre 1845).
Seguirono anni di relativa calma e la missione di Mesopotamia si espanse, da Urfa la missione si estese ad altre cittadine vicine come Suerik, Beregik e Adiyaman. Fu l’unico missionario rima
sto a Urfa, il p. Angelo da Villarubia, (un frate del gruppetto iniziale, della regione di Castiglia), a erigere questi avamposti.
Finalmente furono mandati in rinforzo tre frati italiani, purtroppo uno morì lungo il viaggio a metà strada tra Beregik e Urfa, ma gli altri due, Giovanni da Urbania e p. Basilio da Portomaurizio arrivarono a Urfa. Anzi, quest’ultimo venne nominato superiore di Urfa e così, p. Angelo da Villarubia, reso più libero, potè dedicarsi a tempo pieno all’evangelizzazione dei villaggi dei dintorni. Egli era medico e quindi aveva modo di avvicinare tanta gente che ricorreva a lui per curarsi. Per anni egli era andato a Beregik, curando senza distinzione cattolici e ortodossi, ma solo nel 1862, dopo 22 anni, ottanta famiglie si convertirono alla fede cattolica. Così anche qui prese una casa e adattò una sala a cappella per celebrarvi i divini misteri. La nuova missione era fondata.
Il p. Angelo riuscì a convertire anche il vescovo giacobita di Suerik (20 luglio 1863) che, fatto cattolico, fu inviato alla diocesi di Adiyaman, ove lo stesso padre aveva già conquistato alla fede cattolica alcune famiglie di giacobiti. Anche qui nuova missione.
Intanto a Diyarbakir nel 1856 era giunto il desiderato firmano del sultano che riconosceva definitivamente il diritto dei frati sulla loro residenza, più volte confiscata e più volte ripresa, e si ordinava che i missionari vi rimanessero indisturbati. La vecchia costruzione era però cadente e si decise di costruirne una nuova. Si iniziò a edificare la chiesa nel 1857 e il convento nel 1858. «Così la missione di Diyarbakir risorse a nuova vita e i missionari vi lavoravano con frutto ubertoso» (Ibidem, pag. 335).
Nel 1866 veniva nominato Delegato Apostolico, il Superiore della missione: p. Nicola da Barcellona, ma per concessione speciale della Santa Sede, su insistenza dei frati, egli potè mantenere i due incarichi, superiore dei frati e Arcivescovo delegato per la Mesopotamia, e così potè lavorare con i confratelli per il bene della missione stessa.
Nel 1864, erano giunti come rinforzo altri tre frati dall’Italia e con tale aiuto si aprì un’altra stazione a Malatya, l’antica Melitene. Fu sempre l’intrepido p. Angelo da Villarubia a fondare anche quella missione. Chiamato colà dal Vescovo armeno-cattolico di quella città, egli vi si recò senza esitazione nel 1867. Anche qui, trasformata in cappella una stanza della casa che aveva preso in affitto, riuscì, con il suo carattere affabile, caritatevole con tutti, a conciliarsi la stima e l’affetto “non solo dei cristiani ma anche dei turchi”.
Anche qui, gli tornava utile l’esercizio dell’arte medica con cui poteva entrare in tante case e mostrare il pieno suo disinteresse nel curare i corpi e le anime. Dopo due mesi che aveva preso dimora a Malatya, un gruppo di cristiani di Karput (oggi Harput, una cittadina distante 90 km da Malatya, a 1200 mt. d’altezza) venne a Malatya chiedendo di divenire cattolici e pregando il missionario di recarsi tra loro. A Karput – come anche a Malatya d’altronde – si stava infiltrando infatti, una consistente presenza di missionari protestanti
Karput era la città ove, al tempo delle crociate, era stato prigioniero Baldovino II.
«Entrato il p. Angelo a Karput, dopo aver istruite e aggregate parecchie famiglie alla chiesa cattolica, comprò una casa e vi aperse una modesta cappella, ove celebrare i divini uffici» (Ibidem, pag. 348).
Da Karput p. Angelo scese nella valle detta Mamouret-ul-Aziz, ove sorgeva la cittadina di Mezeré (in seguito, ingrandendosi, chiamata col nome della valle: Mamouret-ul-Aziz e oggi Elazig) al centro di questa valle fertile, abitata in prevalenza da cristiani armeni.
Anche a Mezeré, l’instancabile p. Angelo da Villarubia fondò una missione che divenne il suo centro operativo per i villaggi cristiani della vallata, incontrando però l’opposizione, questa volta non solo degli ortodossi, ma anche dei protestanti (metodisti americani). Questi si erano insediati già da tempo in quella valle e usavano ogni mezzo per contrastare l’opera dei missionari cattolici.
In varie circostanze fu l’intervento della Francia, mediante il suo ambasciatore a Costantinopoli, a salvare l’opera dei missionari. Il p. Angelo che aveva acquistato la prima casa a Karput nel 1868, dopo aver fondato anche la missione di Mezerè, se ne era ritornato a Malatya. Intanto altri frati erano giunti ad abitare le nuove case e rimpiazzavano quanti venivano a morire.
L’intrepido p. Nicola, Arcivescovo e ora Delegato Apostolico, moriva nel 1873. Fu sepolto nella chiesa dei cappuccini di Mardin.
Nel 1885 si terminò la costruzione di una nuova chiesa e convento di Mardin. E si costruirono pure scuole per ragazzi e ragazze – queste affidate a religiose francescane di Francia.
Karput era diventata intanto centro di irraggiamento di attività apostolica verso altri sette villaggi. Il lavoro era immenso e i missionari pochi. In più si aggiungevano i problemi di carestia, d
i pestilenze e di incursioni di bande armate. A Mardin dovettero persino organizzare la gente per difendere la città da una banda di curdi che imperversava nella regione e aveva assalito la città stessa.
Nel 1886 moriva anche p. Angelo da Villarubia, ultimo superstite di quei primi frati spagnoli che in pratica avevano rifondato la missione in Mesopotamia. Aveva trascorso 45 anni di missione nelle regioni dell’Eufrate e del Tigri. Aveva 74 anni quando morì e una folla inverosimile partecipò ai suoi funerali. Fu sepolto nella chiesa di Mezeré, da lui fondata. «La perdita di un tanto Padre intemerato, operoso, benefico, che s’aveva conciliata la stima, la fiducia, la venerazione universale, fu rimpianta non solo dai cattolici, ma eziandio dagli eretici e dai musulmani» (Ibidem, pag. 399).
Ai piedi di Diyarbakir, sulla riva sinistra del Tigri vi era un piccolo villaggio chiamato Kirtebel formato da circa 200 famiglie cristiane, metà giacobite e metà ortodosse, ma non v’era nessuna presenza cattolica, pur essendovi in Diyarbakir, ormai da due secoli e mezzo, una buona comunità cattolica. Un certo p. Donato, per mettersi in relazione con quella gente, acquistò nel villaggio alcune vigne abbandonate e un pezzo di terra, ove il suo successore p. Gianantonio, superiore regolare della missione dal 1879, vi costruì anche una piccola casa con la solita cappella per il culto. I missionari di Diyarbakir vi si recavano di quando in quando per curare la vigna e istruire alla fede i pochi cristiani che frequentavano, senza richiedere ad alcuno il passaggio alla fede cattolica, ma aspettando pazientemente che la grazia di Dio facesse il suo corso, muovendo i cuori a conversione. Molti anni dopo tanto paziente e silenzioso lavoro, nel 1892, venti famiglie si presentarono al padre missionario, p. Gianbattista da Castrogiovanni, per essere ricevute nel grembo della chiesa cattolica. Si costituì così anche là una comunità cattolica e la cappella venne ampliata e dedicata a S. Francesco.
Questo dice un po’ dello stile paziente e rispettoso che usavano questi frati.
Si era giunti intanto al 1893: la missione di Mesopotamia si era molto estesa e necessitava di nuove forze. Fu allora che il prefetto di quegli anni, p. Gianantonio da Milano, chiese ai superiori di Roma altri frati.
Egli suggerì al padre Generale dei cappuccini, p. Bernardo da Andermatt, un uomo di grande intelligenza e che potenziò notevolmente l’azione missionaria dei cappuccini in Oriente e in altre zone, di inviare cappuccini francesi, proprio per la particolare relazione che la Francia da secoli aveva sempre mantenuto con il Sultano. I turchi, che non amavano in genere gli europei, avevano profondo rispetto per i “franchi”. Inoltre la Francia da secoli esercitava colà un protettorato su tutti i cristiani: diritto che le era riconosciuto dalle altre potenze occidentali e dal Sultanato.
Per queste e altre ragioni il p. Generale fu d’accordo e affidò la missione di Mesopotamia ai frati francesi della Provincia di Lione.
Il 6 maggio partì così da Marsiglia il primo gruppo di frati di Lione che andò a rafforzare la presenza dei missionari (ormai tutti italiani) che erano presenti in Mesopotamia. Cinque frati, seguiti dopo poco tempo da altri tre. «Così la missione di Mesopotamia iniziata nel 1600 dai francesi, e risuscitata dagli spagnoli e sostenuta dai frati italiani, ritornava ai francesi, suoi antichi fondatori» (Ibidem, pag. 423).
Purtroppo a partire dal 1893 si addensavano fitte nubi di tempesta sulla missione e su tutti i cristiani dell’est della Turchia. Si preparava una prova durissima: l’uccisione pretestuosa di tanti cristiani. «Il peggio degli eccidi accadde nel 1895, eccidi che desolarono le contrade d’Oriente e misero in forte apprensione i nostri missionari» (Ibidem, pag. 428).
Fu nel novembre del 1895 che si ebbero questi massacri, ben documentati dalle inchieste ufficiali delle ambasciate e dei consoli delle potenze occidentali. Basti pensare che nella sola regione di Diyarbakir «furono saccheggiati e in parte distrutti 298 villaggi, 20.450 case, 3.522 botteghe, 120 chiese, 6 conventi, 35 sacerdoti uccisi, 22.883 cristiani trucidati. La più parte delle vittime fu fatta tra gli armeni… Altri 10.000 morirono in seguito per fame e per malattia… Per lo spazio di 12 giorni nel nostro convento di Diyarbakir si rifugiarono circa 5.000 cristiani, che furon nutriti per mezzo del pane di S. Francesco» (Ibidem, pag. 432)
Analoga sorte toccò a Urfa, ove fu dato assalto al quartiere armeno, infierendo con un orrendo massacro. I cristiani che dimoravano negli altri quartieri si rifugiavano nella missione dei cappuccini e furono salvi. «Cessato l’eccidio, centinaia di feriti, d’ignudi, di affamati, trovaron nei cappuccini tanti padri e nelle suore francescane tante madri che di tutti ebbero cura» (Ibidem, pag. 435).
A Mardin le cose andarono diversamente per l’intervento risoluto da p. Daniele da Manoppello, «uomo energico, esperto, coraggioso e conoscitore profondo della lingua araba” (Ibidem, pag. 443). Egli riuscì a far risparmiare l’eccidio grazie alla sua amicizia con Ibrahim pascià, famoso e leggendario capobanda curdo della zona, promettendogli anche una ricompensa dalla Francia. Questo Ibrahim si impose anche alle vicine tribù curde e Mardin non fu assalita. Ma se riuscì a a risparmiare Mardin, non poté fare nulla per i tanti villaggi cristiani dei dintorni. Anche per questi, il convento divenne rifugio e 2.000 cristiani vi trovarono cibo e assistenza.
Malatya non fu immune da quegli eccidi, anzi tra le nostre residenze di Mesopotamia fu l’unica a subire il saccheggio e ad essere incendiata. I missionari furono imprigionati e solo il subitaneo ed energico intervento dell’ambasciatore di Francia salvò loro la vita.
Un anno dopo però i frati, con l’aiuto dei benedettini di Marsiglia, devoti di S. Espedito martire di Melitene, ricostruirono in suo onore la chiesa. Si riaggiustò il convento e vi si accolsero molti. Anche a Karput e Mamouret-ul-Aziz, i frati riuscirono, questa volta con l’aiuto del governatore turco nel primo caso, e di un colonnello nel secondo, a salvare dall’eccidio armeni e altri cristiani dagli assalti delle orde curde, che in genere guidavano questi assalti devastanti.
«L’intera missione di Mesopotamia, nella terribile strage del 1895, può vantare d’aver salvata la vita a 10.000 persone, che s’eran rifugiate nelle nostre residenze. Lo stesso governo turco non si peritò di encomiare i missionari cappuccini, e mostrò loro tutta la gratitudine, per l’opera prestata in quelle spaventose congiunture. Nell’aprile del 1896 un telegramma dal palazzo imperiale di Costantinopoli ordinava al Governatore residente in Diyarbakir, di trasmettere ai missionari cappuccini i saluti e i ringraziamenti di Sua Maestà il Sultano per la loro condotta lodevole nello svolgersi degli avvenimenti ultimi, e per il bene da loro operato in favore dei feriti, dei poveri e degli abbandonati. Inoltre fece loro un dono di 5.000 piastre (circa 1120 franchi)» (Ibidem, pag. 461).
Ironia della sorte! I frati venivano lodati e premiati per il bene svolto verso coloro che lo stesso Governo turco aveva lasciato trucidare. I giochi della politica!
Il Presidente della Repubblica di Francia volle a sua volta decorare la missione dei cappuccini di Diyarbakir con una medaglia d’onore in argento. «Ministère des Affaires Etrangères: Le Prèsident de la Rèpublique Française, sur la proposition du Ministre des Affaries Etrangères decrète: Une Médaile d’honneur en argent est décernée à la Mission des Capucins à Diyarbakir, qui se sont signalés par leur belle conduite et leur courage au cours des événements qui ont eu lieu en Asie Mineure. Fait à Paris, le 25 Janvier 1896» (Ibidem, pag. 462).
In quella immane tragedia «i padri nostri trovaron modo di vestire gli ignudi, di sovvenire gli affamati, di salvare quegl’infelici dalla morte. E passato il turbine furibondo che aveva desolato quelle contrade, con soccorsi avuti dall’Europa e dall’America, rialzarono chiese, ospizi, orfanotrofi, collegi, scuole; e dopo alcuni anni la Missione fu rimessa allo stato di prima» (Ibidem, pagg. 464-465).
Seguirono anni di grande lavoro apostolico, ove chiese, ospizi, scuole, orfanotrofi e ospedali, sorsero in vari punti della missione. Man mano vennero a mancare i cappuccini italiani e sempre più la missione fu gestita dai frati francesi. Il superiore, p. Gianantonio da Milano, il 22 dicembre del 1909 veniva nominato Arcivescovo di Izmir e Vicario Apostolico dell’Asia Minore, e gli subentrava come superiore ecclesiastico dell’intera missione il p. Angelo da Clamecy. Nel 1912 in quella missione vi erano 18 floridissime scuole presso le varie residenze dei frati e delle suore, frequentate da oltre 9.000 allievi/e. Tutto procedeva a meraviglia quando venne la terribile Prima Guerra Mondiale con tutto quel che seguì, con nuove lotte intestine, guerre, eccidi e tutto il resto. Anche le missioni dei cappuccini furono travolte dalla bufera, le loro chiese e scuole distrutte, i missionari, quelli che non poterono salvarsi, esiliati, imprigionati o morti di stenti… Ma questa è una storia ancora da scrivere.
Oggi in quelle città ove tanti frati, per tre secoli, lasciarono sudore, fatiche, tanta sofferenza, e qualche volta il sangue, non resta più nulla. Le comunità cristiane sono quasi completamente dissolte, e la presenza dei cappuccini o di altri religiosi in quelle zone non esiste più.
Solo al sud della Turchia, Adana-Mersin-Iskenderun-Antakya si può oggi trovare ancora il segno di questa antica e benemerita presenza dei cappuccini.
Ci piace chiudere questo breve excursus con le parole commoventi dello storico cappuccino p. Clemente da Terzorio che ha raccolto e scritto nel 1920 tutte quelle memorie che abbiamo succintamente riportato: «noi abbiamo visto questi campioni della fede, come col loro mandato di Missionari apostolici, vi fecero, innanzi tutto, rivivere la fede cattolica estinta dall’eresia; l’abbiam visti ristabilirvi la gerarchia di vari riti orientali; vi fondarono scuole gratuite d’insegnamento e di lavoro per la gioventù; vi protessero col credito e coll’intervento loro presso il governo turco, i cristiani oppressi, i minacciati; vi curarono infermi in qualità di medici, d’infermieri, di farmacisti, mettendo a repentaglio la propria vita; vi largheggiarono di soccorsi agli orfanelli, agli sventurati, ai poveri; vi innalzaron chiese, cappelle, orfanotrofi, ospedali; vi compirono insomma il loro dovere di Missionario, senza nulla aspettarsi da quelle popolazioni» (Ibidem, pag. 490).