I primi tentativi missionari
Il primo tentativo di una presenza di Cappuccini a Costantinopoli, come allora era chiamata l’odierna città di Istanbul, risale all’anno 1551.
“I primi nostri confratelli che entrarono a Costantinopoli furono Giovanni di Medina del Campo (Spagna) e Giovanni da Troia (Puglia). Italia e Spagna si davano la mano in quei due eletti e incliti figli del poverello d’Assisi, per opporre al Corano le verità del santo Evangelo” (p. Clemente da Terzorio, le Missioni dei Minori Cappuccini, Volume II, Roma 1914, pag. 23).
Avuto il permesso dei superiori e il mandato di papa Giulio II, i due cappuccini si imbarcarono in quell’anno per la capitale dell’impero turco.
Vi giunsero ripieni di tale entusiasmo che, appena entrati in città, iniziarono subito a predicare Cristo ovunque trovassero un gruppo di persone riunite.
“I turchi, passato il primo momento di stupore, all’inattesa irruenza che parve non solo temeraria, ma pazza, si gettarono su di loro percuotendoli furiosamente e trascinandoli poscia al Cadì” (Ibidem, pag. 27).Questi, dopo essersi informato su chi fossero e constatato il loro intento di annunziare Cristo, li fece flagellare e rinchiudere in prigione in attesa di una soluzione definitiva. Mani pietose però, dopo qualche giorno, fecero arrivare denaro al Cadì, che li rimise in libertà con l’immediata espulsione dalla città.
I due frati non si dettero pace: espulsi da Costantinopoli si recarono in Palestina ove, nel loro tentativo di predicare Cristo furono di nuovo flagellati e lasciati come morti per strada da un gruppo di beduini.
Raccolti e curati dai frati francescani di Terra Santa, appena si furono rimessi in salute, tentarono la stessa predicazione al Cairo in Egitto.
Anche qui ricevettero percosse e angherie di ogni sorta, ma non desistendo essi dal volere annunciare Cristo, furono condannati a morire di inedia in carcere. Come di fatto avvenne dopo qualche giorno.
Dopo questo primo tentativo dei due Giovanni, ne abbiamo un secondo nel 1587, quello a cui partecipò anche il glorioso S. Giuseppe da Leonessa.
Fu il capitolo generale del 1587 che, trattando il problema delle missioni tra gli infedeli, decise di fare questa spedizione.
Avuto il consenso del papa Sisto V furono spediti a Costantinopoli 4 frati. “Ne fu capo il p. Pietro della Croce che ebbe come compagni i pp. Dionigi da Roma ed Egidio di Santa Maria, il quale però trattenuto non sappiamo se da infermità o altra ragione, fu sostituito da p. Giuseppe e da frate Gregorio da Leonessa, il primo sacerdote, l’altro fratello laico” (Ibidem, pag. 29).
Anche questa spedizione però non ebbe un gran successo perché il p. Pietro e il p. Dionigi morirono di peste qualche tempo dopo, in un’epidemia scoppiata in città, mentre si dedicavano al servizio degli appestati.
Il p. Giuseppe pur avendo preso il morbo ne guarì e così, passata l’epidemia, nel suo desiderio di morire martire per la fede, si risolse di annunciare Cristo ai musulmani apertamente. Anzi pensò di presentarsi direttamente al sultano, come aveva fatto S. Francesco.
Ma il sultano non riuscì neppure a vederlo perché le guardie lo presero appena lo trovarono nel palazzo imperiale e, dopo averlo ben menato per il suo ardire, lo appesero ad una trave per una mano e un piede mediante un gancio, appena fuori le mura del palazzo, lasciandolo là penzolante in quell’atroce supplizio.
Rimase tre giorni su quel patibolo “ … e già era in fin di vita quando venne staccato dagli uncini (non si sa da chi; egli disse un angelo) ed avvisato a tornare in Italia” (Ibidem, pag. 43), ove, come sappiamo riprese la sua ardente predicazione in mezzo al popolo, nella regione degli Abruzzi e Umbria, sino alla morte avvenuta nel 1612.
I primi tentativi missionari
Il primo tentativo di una presenza di Cappuccini a Costantinopoli, come allora era chiamata l’odierna città di Istanbul, risale all’anno 1551.
“I primi nostri confratelli che entrarono a Costantinopoli furono Giovanni di Medina del Campo (Spagna) e Giovanni da Troia (Puglia). Italia e Spagna si davano la mano in quei due eletti e incliti figli del poverello d’Assisi, per opporre al Corano le verità del santo Evangelo” (p. Clemente da Terzorio, le Missioni dei Minori Cappuccini, Volume II, Roma 1914, pag. 23).
Avuto il permesso dei superiori e il mandato di papa Giulio II, i due cappuccini si imbarcarono in quell’anno per la capitale dell’impero turco.
Vi giunsero ripieni di tale entusiasmo che, appena entrati in città, iniziarono subito a predicare Cristo ovunque trovassero un gruppo di persone riunite.
“I turchi, passato il primo momento di stupore, all’inattesa irruenza che parve non solo temeraria, ma pazza, si gettarono su di loro percuotendoli furiosamente e trascinandoli poscia al Cadì” (Ibidem, pag. 27).Questi, dopo essersi informato su chi fossero e constatato il loro intento di annunziare Cristo, li fece flagellare e rinchiudere in prigione in attesa di una soluzione definitiva. Mani pietose però, dopo qualche giorno, fecero arrivare denaro al Cadì, che li rimise in libertà con l’immediata espulsione dalla città.
I due frati non si dettero pace: espulsi da Costantinopoli si recarono in Palestina ove, nel loro tentativo di predicare Cristo furono di nuovo flagellati e lasciati come morti per strada da un gruppo di beduini.
Raccolti e curati dai frati francescani di Terra Santa, appena si furono rimessi in salute, tentarono la stessa predicazione al Cairo in Egitto.
Anche qui ricevettero percosse e angherie di ogni sorta, ma non desistendo essi dal volere annunciare Cristo, furono condannati a morire di inedia in carcere. Come di fatto avvenne dopo qualche giorno.
Dopo questo primo tentativo dei due Giovanni, ne abbiamo un secondo nel 1587, quello a cui partecipò anche il glorioso S. Giuseppe da Leonessa.
Fu il capitolo generale del 1587 che, trattando il problema delle missioni tra gli infedeli, decise di fare questa spedizione.
Avuto il consenso del papa Sisto V furono spediti a Costantinopoli 4 frati. “Ne fu capo il p. Pietro della Croce che ebbe come compagni i pp. Dionigi da Roma ed Egidio di Santa Maria, il quale però trattenuto non sappiamo se da infermità o altra ragione, fu sostituito da p. Giuseppe e da frate Gregorio da Leonessa, il primo sacerdote, l’altro fratello laico” (Ibidem, pag. 29).
Anche questa spedizione però non ebbe un gran successo perché il p. Pietro e il p. Dionigi morirono di peste qualche tempo dopo, in un’epidemia scoppiata in città, mentre si dedicavano al servizio degli appestati.
Il p. Giuseppe pur avendo preso il morbo ne guarì e così, passata l’epidemia, nel suo desiderio di morire martire per la fede, si risolse di annunciare Cristo ai musulmani apertamente. Anzi pensò di presentarsi direttamente al sultano, come aveva fatto S. Francesco.
Ma il sultano non riuscì neppure a vederlo perché le guardie lo presero appena lo trovarono nel palazzo imperiale e, dopo averlo ben menato per il suo ardire, lo appesero ad una trave per una mano e un piede mediante un gancio, appena fuori le mura del palazzo, lasciandolo là penzolante in quell’atroce supplizio.
Rimase tre giorni su quel patibolo “ … e già era in fin di vita quando venne staccato dagli uncini (non si sa da chi; egli disse un angelo) ed avvisato a tornare in Italia” (Ibidem, pag. 43), ove, come sappiamo riprese la sua ardente predicazione in mezzo al popolo, nella regione degli Abruzzi e Umbria, sino alla morte avvenuta nel 1612.
solo agli inizi di questo secolo, quando ci furono le varie guerre e gli sconvolgimenti legati alla nascita della Repubblica Turca (1920 – 23). Infatti sino a quell’epoca la presenza cristiana in Cappadocia era ancora consistente. Ancora oggi si possono riconoscere in tanti villaggi le chiese greche o armene abbandonate nel 1923 alla fine della guerra greco-turca e il successivo scontro di popolazioni tra i due stati.
La Missione e’ divisa in 4 custodie d’oriente
P. Giuseppe da Tremblay aveva proceduto nel frattempo ad inviare i suoi frati missionari in tutta la regione del Medio Oriente e visto che le varie case s’erano consolidate, nel 1634 decise col consenso del p. Generale, di dividere tutta questa vasta Missione in varie “custodie”, con a capo un frate “custode” che potesse prendersi cura dei frati e delle varie dimore e riferire ad un Prefetto di tutta la Missione, che era in quel tempo lo stesso p. Giuseppe coadiuvato da un certo p. Leonardo che poi lo sostituirà in pieno alla sua morte, avvenuta nel 1638.
Furono create così tre custodie;
– la custodia di Grecia affidata alla Provincia dei Cappuccini di Parigi che comprendeva le due case di Costantinopoli (Galata e Pera), e le case di Smirne, Atene, e le isole di Schio, Candia (isola di Creta), Naxos, Siros, Paros, Milos, e altri centri minori.
– la custodia di Siria che comprendeva, oltre Aleppo, il Cairo, Diyarbakir, Ninive e Babilonia.
– la custodia di Palestina che aveva le stazioni missionarie a Damasco, Tripoli, Beirut, Saida e tre case minori sulle montagne libanesi.
Come si può vedere fu davvero uno sforzo missionario incredibile. Basti pensare che molte di queste presenze ancora sussistono (ad esempio quella del Libano ed in parte quella della Siria, della Turchia e della Grecia) e ancora oggi varie comunità cattoliche sono assistite dai frati cappuccini, anche se ai frati francesi sono subentrati frati autoctoni (come in Libano) e di altre provincie, come si vedrà.
Collegio Apostolico d’Oriente
Nel 1881 il convento-scuola di S. Luigi a Costantinopoli tornò ai frati francesi di Parigi (l’Ordine dei Cappuccini in Francia nel frattempo si era ricostituito e rinvigorito), mentre la parrocchia di S. Stefano passò alla missione di Smirne rimanendo così ai Cappuccini italiani.
Nel convento di S. Luigi i Cappuccini francesi vi aprirono nel 1882 un Seminario, dedicato alla formazione dei giovani chierici della chiesa cattolica di Turchia, senza distinzione di rito.
Nacque così il Collegio Apostolico d’Oriente, con Seminario Minore (per i ragazzi) e Maggiore (per lo studio della teologia) e che, con alterne vicende è rimasto in funzione sino a qualche anno fa, quando si esaurì per mancanza di vocazioni. Artefice e promotore di quel seminario fu il p. Marcello da Montaille. Egli era partito per Costantinopoli da Marsiglia il 26 febbraio 1881 con il confratello p. Francesco da Mans. Erano i primi due missionari francesi che ritornavano in Turchia dopo la Rivoluzione francese.
Uomo di grande intelligenza, forte temperamento, ma di buon umore e da tutti amato e stimato, egli fu la colonna del ripristino di S. Luigi, un santo frate; dicono le cronache che: “vicino a morire, vedendo la costernazione sul volto dei suoi confatelli e dei suoi scolari, disse loro: non pregate per la mia guarigione, domandate solamente per me la grazia di una buona morte” (Ibidem, pag. 147).
Morì il 14 gennaio 1901.
Istituto Apostolico D’oriente
Fu la mancanza di frati, causa le varie soppressioni avvenute questa volta in Italia che mise in crisi la presenza dei Cappuccini in Oriente. Così mentre i frati di Parigi riprendevano pian piano il loro lavoro nell’antico convento di S. Luigi a Costantinopoli, i frati italiani che erano colà si ritirarono in parte a S. Stefano e in parte a Smirne e nelle isole greche (allora parte dell’Impero Ottomano).Da quel momento il convento di S. Stefano fu aggregato alla missione di Smirne, che ne divenne la sede principale con un suo prefetto. Siamo nel 1881.
La maggior parte di questi missionari erano però anziani, e in ogni caso quelli che restavano erano troppo pochi per sostenere tutto l’Oriente, cioè la missione di Mesopotamia, quella di Siria (sud della Turchia sino ad Aleppo) e delle isole greche, nonché di Bulgaria; mentre dall’Italia non poteva venire nessun aiuto di personale.
Fu così che il Prefetto di Smirne, p. Salvatore da Graniti sostenuto dagli altri frati, pensò di erigere un Seminario e il Noviziato per preparare nuove generazioni di frati, per le esigenze delle varie Missioni d’Oriente. Avuto il permesso e il pieno appoggio del p. Generale dell’Ordine, p. Egidio da Cortona, si risolse di comprare del terreno e una casa nel villaggio di Buggià, allora a 8 chilometri da Smirne (oggi un quartiere della città denominato in turco Buca ma si legge Bugià) per erigervi il noviziato, un anno di prova della vita religiosa che è porta d’ingresso per divenire frati. “Il sito prescelto era ameno, l’aria pura, il clima salubre, tutto insomma concorreva a formare una dimora modello“ (Ibidem, Vol. III, pag. 257).
Furono comperati 50.000 metri quadrati di terreno, in mezzo al quale dominava il convento costruito ex-novo al posto della piccola casa preesistente, insufficiente.
Costruito secondo la norma delle Costituzioni dei Cappuccini nella sua semplicità, ma bello e maestoso, oltre alle aule per la scuola, refettorio, cucina ecc.. aveva 60 camere per i frati e per i futuri fraticelli. Era l’unica costruzione del genere, in tutto l’Oriente.
Maestro dei novizi fu nominato un certo p. Serafino da Lugo e il 4 ottobre del 1883 furono ammessi all’anno di prova 16 giovani (14 chierici e due laici) di cui sette italiani, sei bulgari, due austriaci e un armeno. L’anno appresso, il 12 ottobre, fecero la loro prima professione, rimanendo a Buggià (Buca) per i successivi studi di filosofia e teologia.
Arrivavano giovani anche dalla Bulgaria, perché colà si era da tempo stabilita una missione cappuccina, con al centro un seminario minore costruito a Filippopoli.
Altri aspiranti erano pronti per entrare, ma il convento era occupato dai neofiti, perciò si decise di spostare il noviziato a S. Stefano di Costantinopoli per tenere a Buggià lo studentato filosofico-teologico.
Bisognò erigere una nuova costruzione, per adattare il convento di S. Stefano alla nuova esigenza e nel 1883 si provvide ad alzare il vecchio fabbricato di un piano, ottenendo 20 camerette, poi si costruì il refettorio (misurava 14 m. x 7) e fu elevato un nuovo braccio lungo il molo, e così l’Istituto Apostolico d’Oriente con i due conventi di Buggià e S. Stefano cominciò a operare a pieno ritmo.
L’Istituto contava si può dire quattro anni quando nel 1885 ci fu la visita del nuovo Ministro Generale dell’Ordine, il famoso padre Bernardo da Andermatt (svizzero) che non solo approvò il nuovo progetto, ma per anni ne fu il più convinto sostenitore e benefattore.
L’Istituto, pur generando nei vari anni un bel gruppo di frati, ebbe però vita breve: nel 1908, proprio mentre si celebrava a Roma il Capitolo Generale durante il quale cessava dal suo incarico p. Bernardo d’Andermatt, e gli subentrava il nuovo Generale p. Pacifico da Seggiano, giungeva un decreto della S. Sede in cui “s’ordinava ai nuovi Superiori di erigere a Roma, senza indugio, un collegio internazionale per tutte le nostre province” (Ibidem, pag. 326) e si decretava contemporaneamente la chiusura dell’Istituto Apostolico d’Oriente affidando le diverse missioni orientali a Provincie differenti dell’Ordine che se ne sarebbero preso cura. Ciò faceva parte di un piano di riorganizzazione generale di quelle missioni.
Il nuovo ministro generale, il detto p. Pacifico, tentò di impedire quella soppressione e presentandosi direttamente al Santo Padre Pio X ottenne la grazia che l’Istituto potesse ancora continuare. Ciò avvenne ancora per qualche anno, ma per nuove difficoltà sorte nel frattempo, il 7 gennaio 1913 un nuovo decreto della S. Sede riproponeva la soppressione dell’Istituto e l’affidamento delle missioni d’Oriente a varie Provincie. Questa volta si dovette obbedire ed eseguire il decreto della S. Sede. Pare che tra le motivazioni adotte vi fosse la mancanza di mezzi di sussistenza per la quale lo stesso Istituto e il Commissariato delle missioni d’Oriente che lo reggeva, aveva dovuto indebitarsi. In più, l’impegno dell’Ordine nel nuovo collegio Internazionale di Roma, che ne assorbiva in parte gli scopi, ne rendeva difficile il mantenimento economico.
Così l’Istituto fu soppresso, alunni e studenti furono distribuiti nelle rispettive Provincie che ebbero in cura le missioni di quelle terre e cioè: alla Provincia di Palermo fu affidata la missione di Smirne e Trebisonda, a quella di Croazia la missione di Sofia e Filippopoli in Bulgaria. Quelle di Mesopotamia e Siria erano già tornate ai francesi.
Decine di frati erano usciti da quell’Istituto, inviati, man mano che terminavano il loro cammino di formazione, alle varie missioni: Asia Minore, Trebisonda, Mesopotamia, Bulgaria.
Tra essi vogliamo ricordare il p. Cirillo Zohrabian, nativo di Erzurum, di famiglia armeno-cattolica, e che tanto fece nella missione di Trebisonda per i perseguitati greci e armeni, divenendo poi Arcivescovo degli Armeni della diaspora (cfr. pag. 58). Morì nel 1971 e di lui è ora aperta la causa di beatificazione.
“Con i continui drappelli di Missionari, che partivan dall’Istituto apostolico, le nostre Missioni d’Oriente avevan preso nuova vita. Erano però venticinque anni che si lavorava per la formazione di buoni e zelanti Missionari. Durante il lungo periodo furon ricevuti nell’Istituto 212 alunni, dei quali 35 vennero meno alla loro vocazione religiosa e 22 passaron all’eterno riposo. Dal 1883 al 1908 partirono per le nostre Missioni d’Oriente 60 sacerdoti. Sicché nel 1908 l’Istituto apostolico, tra sacerdoti, chierici e fratelli laici numerava 133 religiosi. Inoltre eran nel seminario serafico 30 seminaristi e nel noviziato 8 novizi. Tale era lo stato dell’Istituto, dopo venticinque anni di esistenza” (Ibidem, Vol. III, pp. 319-320).
Inutile dire lo sconforto e il rincrescimento di tutti i frati missionari, soprattutto del grande stuolo di frati che in quei 30 anni di vita erano stati formati in quell’Istituto, ma non ci fu niente da fare, la risoluzione era presa.
Ma altri più gravi problemi e sconvolgimenti stavano delineandosi all’orizzonte per quelle Missioni: siamo infatti alla vigilia della prima guerra mondiale…
Nasce la Missione D’oriente
Bisogna quindi aspettare sino al 1626 per ritrovare una spedizione di missionari Cappuccini in Oriente. Questa volta fu però ben organizzata e preparata.
Al centro del progetto c’era un cappuccino francese che fu anche un illustre personaggio: p. Giuseppe da Tremblay, conosciuto dagli storici e dalle cronache francesi come “eminenza grigia” perché amico e collaboratore del card. Richelieu, a quel tempo ministro plenipotenziario del re di Francia Luigi XIII. P. Giuseppe da Tremblay, nato il 4 novembre del 1577, ebbe nome di Francesco. Era di illustre e nobile famiglia. Di grande ingegno e molto dotato per gli studi, a 18 anni aveva già terminato gli studi scientifici e filosofici e sapeva perfettamente il greco e il latino, parlava lo spagnolo e l’italiano (oltre al francese, sua lingua madre), e comprendeva l’inglese e il tedesco.
Nasce la Missione D’oriente
Bisogna quindi aspettare sino al 1626 per ritrovare una spedizione di missionari Cappuccini in Oriente. Questa volta fu però ben organizzata e preparata.
Al centro del progetto c’era un cappuccino francese che fu anche un illustre personaggio: p. Giuseppe da Tremblay, conosciuto dagli storici e dalle cronache francesi come “eminenza grigia” perché amico e collaboratore del card. Richelieu, a quel tempo ministro plenipotenziario del re di Francia Luigi XIII. P. Giuseppe da Tremblay, nato il 4 novembre del 1577, ebbe nome di Francesco. Era di illustre e nobile famiglia. Di grande ingegno e molto dotato per gli studi, a 18 anni aveva già terminato gli studi scientifici e filosofici e sapeva perfettamente il greco e il latino, parlava lo spagnolo e l’italiano (oltre al francese, sua lingua madre), e comprendeva l’inglese e il tedesco.
Anche sul piano militare aveva dimostrato destrezza e valore, tanto da esser lodato a corte dallo stesso re Enrico IV. Tutto sembrava ormai aprirgli una vita di successi e grande carriera, quando nel 1599, a soli 22 anni, si sentì attratto dal Signore e volle indossare l’umile saio dei Cappuccini.
Il 3 febbraio del 1600 col nome di p. Giuseppe emetteva i voti. Terminati gli studi teologici egli iniziò la sua attività come predicatore, ottenendo grande successo e tante conversioni.
Fu però nel 1625, quand’era già consigliere molto ascoltato del card. Richelieu, che egli dedicò la sua attenzione alla Missione nell’Oriente.
Nella sua molteplice attività e nei suoi contatti con le famiglie più illustri di Francia ed Europa p. Guseppe aveva meditato di organizzare (e la stava preparando negli anni precedenti) persino una nuova crociata per liberare la Terra Santa dai Turchi, ma le difficoltà sopravvenute gli fecero comprendere che forse era meglio inviare in Oriente dei pacifici missionari, “i quali non con le armi, ma con la carità e la parola evangelica dovevano combattere contro il turco” (Ibidem, pag. 80).
In questo suo nuovo progetto egli ebbe il pieno appoggio del Re, del Cardinale e dello stesso Pontefice Urbano VIII. L’appoggio del re significava avere anche gli adeguati finanziamenti per sostenere tutta l’operazione e infatti incominciò subito, tramite ambasciate e consolati, ad acquistare le case per alloggiarvi i religiosi, con tutti gli arredi necessari. Si può supporre che tutta l’operazione avesse anche un risvolto politico importante: si trattava di andare in Oriente per predicare il Vangelo ma, come sempre accadeva a quei tempi, ciò era anche un modo di favorire la penetrazione della cultura francese e assistere la comunità cristiana cattolica, formata per lo più da commercianti, diplomatici, schiavi delle varie nazioni europee. L’approvazione del papa conferiva a p. Giuseppe un potere quasi assoluto sui conventi dei cappuccini per prelevare i frati più capaci e adatti a tale missione. E infatti egli ne scelse subito un centinaio. Frati che aderirono con entusiasmo.
Preparandoli li inviò poi alle varie destinazioni del Medio Oriente, man mano che erano pronti i permessi delle autorità locali e le case per accoglierli.
A Costantinopoli furono inviati, come primo gruppo, 4 frati che partirono da Parigi il 5 febbraio del 1626 e giunsero colà il 7 luglio dello stesso anno.
Furono prontamente accolti dall’ambasciatore francese che li provvide di tutto il necessario.
Li presentò persino al sultano, che diede loro permesso di libero soggiorno e movimento in tutti i suoi territori. In ciò furono sostenuti anche dall’ambasciatore di Venezia e d’Inghilterra, segno che vi era una comune convergenza nell’avere dei missionari per assistere la numerosa comunità cattolica che s’era formata in quella città. Tutto il grande quartiere di Galata era infatti cristiano, e vi dimoravano negozianti, banchieri, commercianti e tanta altra gente perché era il luogo ove approdavano le navi mercantili europee con tutti i loro traffici.
I nuovi missionari si adattarono in una piccola casa vicino alla chiesa di “S. Giorgio al monte”, loro concessa dalla comunità cristiana locale. Era alquanto in rovina, ma si trovava appunto nel quartiere di Galata.La loro attività era la predicazione, le confessioni, l’istruzione dei giovani delle famiglie cristiane per i quali presto aprirono anche una scuola, e l’assistenza spirituale a mercanti francesi, italiani, europei in genere, agli agenti e artigiani delle varie nazioni. Una assistenza particolare fu rivolta agli schiavi (cfr. scheda a parte) e agli Armeni che non avevano chiese in quel quartiere, ma vi erano assai numerosi. Di questi ultimi ne furono convertiti parecchi al cattolicesimo.
Presto impararono le lingue necessarie per il loro apostolato i e cioè l’italiano (per diplomatici e mercanti) e il greco, dato che questa era la lingua comune del popolo in quel quartiere cristiano. Con la loro vita austera (vivevano di sole elemosine in natura, rifiutando il denaro) e penitente, presto acquistarono grande autorità morale presso tutti i cristiani di Galata.
Persino i turchi, dopo un primo momento di derisione e molestia, cominciarono a stimarli e rispettarli proprio per l’austerità e santità della loro vita e perché li vedevano completamente distaccati dal denaro.
La casa di San Luigi dei Francesi
Col sopraggiungere di altri frati della Francia, fu possibile nel 1629 aprire un’altra scuola nel quartiere di Pera vicino all’ambasciata francese, in una vecchia casa adattata a edificio scolastico, sempre con l’aiuto della comunità locale. La scuola fu presto frequentata da ragazzi di ogni ceto e credenza, portando grande frutto e plauso.
Dopo qualche anno, nel 1637, visti i buoni risultati, il Re di Francia in persona donava loro un locale più ampio e adatto alla scuola, sempre nei pressi dell’Ambasciata francese.
“Oggi 4 luglio 1637 il Re, volendo trattare benevolmente i PP. Cappuccini che sono in Costantinopoli, in considerazione del frutto che fanno fra i cattolici… e nella istruzione ed edificazione del prossimo mercè di un
a scuola per insegnare alla gioventù… accordando ai medesimi un luogo proprio per fare le loro funzioni e tenervi la detta scuola, S. M. ha donato un locale posto dietro una fabbrica chiamata Chateau Gaillard nella casa di Francia a Costantinopoli, il quale servirà da quinci innanzi per i detti Cappuccini, e non ad altro“ (Ibidem, pp. 60-61).
A tale casa-scuola fu presto aggiunta una cappella (più tardi trasformata in chiesa) dedicata a S. Luigi. Nasceva così la famosa scuola e il convento dei cappuccini di S. Luigi dei francesi, rimasto in attività sino
ai nostri giorni.
I Cappuccini ultimamente si sono ritirati (solo da quattro anni, l’ultimo frate francese che era a S. Luigi è ora pressi il nostro convento di Yeșilköy a Istanbul, ed ha 83 anni), ma la scuola continua ancora.
Sorge la parrocchia di Santo Stefano a Yesilkoy
Tornando alla storia della missione di Costantinopoli dobbiamo annotare che la casa-scuola di S. Luigi continuò a crescere e ingrandirsi anche perché nel 1666 era scoppiato nel quartiere di Galata un rovinoso incendio, dopo il quale quasi tutti gli europei preferirono trasferirsi dal quartiere di Pera, ove erano collocate le maggioranze delle ambasciate. Così nel 1673 l’Ambasciatore francese ottenne dal governo turco il permesso di costruire una chiesa (prima vi era solo una cappella), poi ingrandita nel 1726, e ricostruita quasi per intero negli anni 1747-1755.
La residenza Pera di S. Luigi, crescendo d’importanza, divenne così la sede principale della missione, mentre quella di Galata, ricostruita dopo l’incendio e che pur aveva continuato a svolgere la sua originaria funzione, nel 1783 venne ceduta al Vicariato Apostolico di Costantinopoli, sia per la difficoltà dei Cappuccini francesi ad avere nuovi missionari (iniziavano le difficoltà che poi esploderanno con la Rivoluzione francese) sia per dare dei luoghi alla chiesa locale, quasi totalmente dipendente, sino ad allora, dai religiosi.
La Rivoluzione francese con gli sconvolgenti portati in Francia, soprattutto con la soppressione degli ordini religiosi, portò una grave crisi in tutta la missione del Levante, venendo a mancare il cambio dei religiosi che man mano invecchiavano e morivano.
Che fare? In Francia i cappuccini non esistevano più.
Dopo vari tentativi, in accordo con la S. Sede, si cominciò a inviare nei vari luoghi, da parte del Ministro Generale dell’Ordine, frati italiani e spagnoli che, nei vari conventi sostituirono i francesi.
Furono così i frati italiani, con a capo il prefetto p. Pietro da Settingiano, che acquistarono la parrocchia di S. Stefano, nelle vicinanze di Costantinopoli nell’omonimo villaggio (oggi chiamato Yeșilköy) attualmente inglobato nella grande Istanbul, quartiere residenziale molto ambito.
S. Stefano era a quei tempi un villaggio prevalentemente cristiano, abitato da greci e cattolici, vi erano solo poche famiglie di turchi.
Pare che il nome derivasse da una cappella dedicata a S. Stefano risalente al 1200. Nella storia delle crociate infatti si ricorda che nel 1200 si tenne il consiglio dei Conti, Baroni e Doge di Venezia nella chiesetta greca di S. Stefano e nell’adiacente monastero, situati circa tre leghe dalla città di Costantinopoli.
Del monastero non v’era però più traccia già nel 1800.
All’inizio del XIX secolo vi era a S. Stefano una piccola parrocchia cattolica eretta per la cura spirituale dei cattolici che, soprattutto in estate, vi si recavano numerosi per villeggiatura. Date le difficoltà di reperire clero diocesano, il vescovo la offrì al p. Pietro, prefetto della Missione.
Egli l’accettò senza esitazione, intuendone il futuro sviluppo.
Nella cronaca del convento di S. Stefano si legge “Nell’anno 1863, ai 21 novembre, giorno di sabato, festa della Presentazione di Maria SS.ma, abbiamo preso possesso della piccola antica cappella di S. Stefano, ufficiata fino allora da un prete secolare certo D. Pietro Corsini, il quale in detto giorno e anno consegnò a noi l’inventario di tutti gli oggetti e mobili esistenti in detta cappella e casa contigua, i quali oggetti, fatte poche eccezioni, sono tutti di poco valore, e quelli che hanno qualche valore sono stati regalati dal popolo” (Ibidem, pp. 132-133).
Posta la prima pietra per la costruzione della chiesa nel 1865, un anno dopo era eretto anche il campanile, e il 6 giugno 1867 si inaugurava e benediceva la chiesa fatta costruire dallo stesso Prefetto p. Pietro, dedicandola a S. Stefano.
Primo parroco e artefice di tutte la costruzione fu p. Anastasio da Pesaro che rimase a S. Stefano sino al 1877 quando, ormai stanco e anziano, si ritirò.
Il sultano scrive al papa per i cappuccini
Interessante sull’opera dei Cappuccini, quanto ne scriveva il sultano Mehmet stesso in una su lettera (1678) al papa: “Gran sacerdote di Roma e sacrificatore di Gesù, il quale fu ammazzato dagli Ebrei nella città di Gerusalemme. Questa è per darti ad intendere che da molto tempo io tramavo di far morire sterminare tutti i sacrificatori che tu hai mandato in diverse città e paesi della mia giurisdizione, ma due considerazioni fin oggi hanno raffrenato il mio giusto furore. La prima è stata la raccomandazione che mi ha fatto fare quest’anno il Re Cristianissimo, Ludovico Re dei Francesi, di cui Ambasciatori alla Porta mia Altezza, per conservazione della pace, mi hanno fatto molte suppliche sopra questo affare.
La seconda ragione è stata la grande umiltà ed ubbidienza che mi rendono questi sacrificatori e penitenti Cappuccini, a cui permetto di vivere nel mio Impero. I miei luogotenenti e governatori mi hanno riferito che il loro modo di vivere e conversare con i miei sudditi è molto modesto e senza scandalo, di che mi meraviglio grandemente e mi stupisco che il ben vivere e la virtù si ritrovino in persone infedeli, che non conoscono la potenza del Dio di Abraam e del suo incomparabile interprete, il Mosè della legge ed il dragomanno della sua volontà (Maometto).
Queste due considerazioni non solo hanno impedito l’esecuzione della volontà che io avevo di cacciare questi penitenti fuori del mio Impero, ma hanno acceso un nuovo desiderio nell’anima mia di considerarli molto. Per questo ho dato licenza a molti di loro, che si dicono ancora servitori di un certo loro profeta nominato Francesco, di fermarsi nella mia grande città di Costantinopoli ed in essa servire il Nazareno e il loro profeta conforme ai loro statuti” ( da P. Clemente da Terzorio, Le Missioni dei Minori Cappuccini, vol. II, Roma 1914, pp. 81-82).
Icappuccini e gli schiavi di Costantinopoli
In quell’epoca numerosissimi corsari turchi circolavano nel Mediterraneo; le guerre sul continente dalla parte dell’Austria e della Polonia erano continue; ora tutti i prigionieri di guerra, se rifiutavano di apostatare, eran fatti schiavi. Alcuni si vendevano a privati, i più disgraziati divenivano schiavi del bagno.
Per nutrimento non avevano che acqua e due piccoli pani neri, per letto una tavola, per camera due prigioni insufficienti a contenere tutti, due prigioni malsane in cui l’aria e la luce non penetravano se non da una stretta porta. Le loro membra, mezzo nude, erano cariche di pesanti catene, che lasciavano solo dopo la morte. Per condurli al lavoro si attaccavano a due a due con queste catene. Il bagno di Costantinopoli contava spesso sino a 2000 cristiani che il dolore e la disperazione spingevano spesso all’apostasia.
Inteneriti alla vista di tante pene e miserie, vari santi istituirono degli Ordini religiosi per la redenzione di quei poveri schiavi.
S. Raimondo da Peñafort giunse al prodigio di carità col dare se stesso in ostaggio per liberare gli schiavi. Per lo più si riscattavano col denaro e sovente si liberavano a seconda dei mezzi pecuniarii disponibili o per mezzo dell’autorità dell’Ambasciatore di Francia.
I nostri Missionari non potendo disporre a tale scopo di mezzi pecuniari, procuravano di aiutare spiritualmente i poveri prigionieri ad esempio del loro antesignano s. Giuseppe da Leonessa.
In un’altra opera di misericordia a vantaggio degli schiavi bisogna ammirare i nostri Missionari in quest’epoca. Siccome le case dell’Ambasciatore, dei Consoli e di ogni suddito straniero godevano in Turchia il diritto dell’inviolabilità domiciliare, lo schiavo che riusciva a rifugiarsi in uno di questi luoghi non poteva essere molestato.
Ma i turchi non sopportavano tali privilegi: guai a quel rifugiato schiavo se capitava di nuovo nelle loro mani e guai anche a colui che gli aveva dato asilo!
Di tali miseri leggiamo quanto segue in una relazione mandata alla S. Congregazione di Propaganda dai nostri Missionari: «A San Luigi (Costantinopoli) ci occupiamo anche degli schiavi fuggitivi: essi vengono a rifugiarsi all’Ambasciata di Francia per liberarsi dal giogo dei turchi. Dobbiamo vestirli da capo a piedi, nutrirli, ecc.
Un Padre si occupa ogni giorno d’istruirli, ridurli alla condizione di veri cristiani, poiché il più sovente hanno tutto dimenticato, se pur non sono diventati apostati»; e dopo aver detto che ciò reca gran disturbo, la relazione continua: «Ogni anno si convertono non meno di 200 schiavi, altrettanta gente che si rende al cristianesimo.
Tra gli schiavi ve ne sono di Francesi, d’Italiani, di Maltesi, di Spagnuoli ecc.; noi non possiamo fare quest’opera che con l’elemosine dei fedeli» (P. Clemente da Terzorio, Missioni dei Cappuccini, Vol II, pp. 70-73).